Il 5 Febbraio 1983 Sandro Pertini, il “Presidente partigiano”, si recò al capezzale di Paolo Di Nella, un ragazzo di 19 anni, militante del Fronte della Gioventù, preso a sprangate tre giorni prima da “antifascisti militanti” mentre stava affiggendo dei manifesti per la creazione di un centro socio-culturale dentro Villa Chigi. Una ragazza di nome Marina si avvicinò al Presidente e gli disse “Questo è il frutto dell’odio che avete alimentato per quarant’anni! Ci stanno ammazzando tutti!” Pertini tacque. L’episodio è narrato nel libro Uccidere un fascista di G. Culicchia dedicato all’assassinio di un altro ragazzo di 18 anni, Sergio Ramelli, avvenuto nel 1975.
Paolo stava affiggendo un manifesto con l’effigie della fiamma tricolore, fiamma che ancora oggi è alla base del simbolo di Fratelli d’Italia. Sono passati altri 42 anni dalla morte di Paolo ma il linguaggio, gli atteggiamenti e la postura nei confronti di chi ancora oggi si discosta da un certo tipo di “pensiero egemone” non sono cambiati poi molto. Si parla spesso del 25 Aprile come una possibile data di “pacificazione nazionale” o di “unità nazionale”. Dato che quest’ultima si celebra già il 4 di Novembre (giorno della Vittoria nella prima guerra mondiale) rimane solo da dirimere il tema della “pacificazione”. Ma è davvero necessaria? E’ davvero necessario snaturare il percorso fatto da persone, movimenti o partiti cercando l’approvazione di chi ha creato il sostrato ideale per la propagazione costante della violenza che vediamo evolvere ma mai scemare in ogni corteo, dibattito o manifestazione? Affermare la propria storia e identità politica passa non solo per i simboli che vengono rivendicati su una scheda elettorale, ma anche per il rispetto nei confronti di chi ha reso possibile l’esistenza di una alternativa alla cosiddetta “egemonia” della sinistra. Ben vengano dunque i cortei del 25 Aprile con le bandiere rosse, con la stella rossa al centro del tricolore, con i vessilli di altri stati o organizzazioni al posto della nostra bandiera nazionale. Che si esprima chiaramente l’intolleranza verso chi non la pensa allo stesso modo degli organizzatori dei cortei. Che siano davvero vive le differenze tra le proposte e le storie che scorrono nel sangue delle famiglie politiche che concorrono al governo del Paese, delle regioni e dei nostri comuni. Non possiamo confondere il rispetto per la chiusura, seppur violenta, di una fase storica del nostro Paese, con un “asservimento” nei confronti di chi cerca costantemente di ridurre ogni dibattito ad un “eterno ritorno” a una postura da “guerra civile latente”. Oggi, a maggior ragione, dobbiamo difendere queste differenze proprio nel nome della libertà di tutti e di chi ha difeso il diritto all’esistenza politica e fisica del Movimento che oggi guida la nostra Nazione.